Mauro Ferrari Stampa E-mail
ferrari (Bergamo, 1941)
Tornerei ancora in Laos
autobiografia 1941-2004

L'autobiografia di un pensionato bergamasco che durante l'adolescenza aveva scoperto dentro di sé la vocazione per la vita religiosa. Dopo aver peregrinato da una congregazione religiosa all'altra, viene ritenuto non idoneo a prendere la tonaca. Divenuto missionario laico in Laos, si sposa con una donna del posto già vedova e madre. Rientrano in Italia, ci sono tre figli da crescere e lui lavora in banca. Ci resta per ventiquattro anni. Ora è in pensione, dializzato, iscritto alle liste d'attesa per il trapianto, e intanto sogna di poter tornare in Laos per aiutare la sua gente.


La mia esistenza è stata caratterizzata da scelte personali non sempre scontate, tanto che al momento di nascere già decisi di anticiparne i tempi. Io volli essere precoce e, contro ogni attesa, secondogenito di sette figli, nacqui con due mesi d'anticipo. Mi rinfacciano ancora ch'io venni alla luce senza piangere, quasi fosse una colpa, e che fui battezzato su due piedi perché i medici mi davano per spacciato. Da quel giorno io mi sentii sempre in anticipo, quasi fosse una questione genetica. Solo dopo tre lunghi giorni, esalai il mio primo vagito. Non dovette essere facile nel 1941, svezzare in casa, quel sacchetto d'ossa che non superava il chilo e mezzo, senza incubatrice e in pieno periodo bellico. Il clima certamente mi diede una mano a crescere poichè dal 31 maggio scoppiava la bella stagione. Aria, sole, un po' di latte e l'amore dei miei genitori fecero il resto. Io non ricordo se gliel'avessi messa tutta per farcela, fatto sta che mi ritrovai, dopo qualche anno, non certo con un peso conforme alle tabelle relative alla mia età, minuto dunque, ma vispo e soprattutto vivo. A questo s'aggiunga il fatto d'aver contratto, a pochi anni, il ballo di San Vito, che rese piuttosto agitato il mio secondo lustro di vita. La nostra famiglia è stata sempre più vicina ai genitori di mamma, i Nani, già originari di Lanzada, si trasferirono poi nell'alta valle Seriana e dopo qualche vicissitudine, approdati, a cavallo degli anni trenta ad Albino, finirono in Città Alta. Il nonno Michele, lattoniere di professione, era il capostipite di una numerosa famiglia, uomo di poche parole, ma eccezionale per la sua professionalità, per la sua rettitudine morale, la sua profonda religiosità, per la bonarietà quasi burbera e per i suoi grandi baffi. A chi per strada lo salutava chiamandolo: “Nonno” rifilava sorridendo: “Sarò poi il nonno di tutti gl'idioti io?”. Questo solo per caratterizzarne il tipo. Dei genitori paterni non ho ricordi particolarmente vivi perché non hanno avuto il tempo di conoscere i loro nipoti. So che erano una delle tanto povere e dignitose famiglie di Città Alta. Avevo solo sentito parlare del nonno Ferrari, che tutti ricordavano come “il tranviere”, preciso e puntuale come un orologio di marca.
Mio padre e mia madre erano genitori ideali, dalla fede profonda, rispettosa, fattiva e con una marcata rettitudine morale. Ci facevano crescere a pane e ragione, preghiere e carezze; di tanto in tanto qualche ceffone, solo se necessario. Loro vivevano in armonia con se stessi, al servizio dei figli, disponibili con il prossimo, ed aperti al volere di Dio. Erano persone oneste, stimate e amate da tutti. Per qualche anno, nella povertà operosa, si preoccuparono di far crescere la numerosa famiglia. Mario era il primogenito, calvo dall'età di dieci anni per un'alopecia, malattia che fu per lui l'inizio di un percorso psicologico non facile, è l'unico dei fratelli che ci ha già lasciato; poi venivo io, soprannominato “l'avvocato delle cause perse “; seguì Teresa la forte, che verso i diciannove anni si sarebbe fatta monaca; Enrico era invece lo spacca tutto e l'aggiusta tutto; Renato già manifestava il suo fare brillante e burlone; Clotilde la sorella che è rimasta vicino ai genitori fino alla loro dipartita, l'unica disposta a sopportare lazzi e scherzi dei fratelli e, per ultimo, Antonio, il più giovane della combricola, anche lui non meno gioviale. La mamma avrebbe generato dieci figli, se tre non si fossero persi per strada. Io avevo quasi tredici anni ed ero in terza media, quando arrivò Antonio. Ricordo che si fece festa in classe per l'occasione, tanto più che nasceva il sesto fratellino all'alunno più povero in assoluto della scuola.

 
 
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