Se non sarò me stesso, otto diari della Shoah tornano in Archivio

PSL 2626Il 14 settembre al Premio Pieve debutto toscano per lo spettacolo della compagnia Teatro dell’Argine
Intervista al regista Andrea Paolucci

Pudore e rispetto. Poco più di un anno fa queste due parole hanno accompagnato otto diari della Shoah fuori dall’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano, conducendoli fino alla compagnia Teatro dell’Argine dove hanno incontrato la sensibilità del regista Andrea Paolucci e di alcune attrici, che dal novembre 2012 hanno iniziato a portarli in scena nella cornice dello spettacolo Se non sarò me stesso (Diari e volti della Shoah – Studio 1).

Con altrettanto pudore e rispetto, sabato 14 settembre 2013, quegli stessi diari saranno riaccompagnati in Archivio da Andrea Paolucci e dalle attrici della compagnia Teatro dell’Argine Giada Borgatti, Micaela Casalboni, Lea Cirianni, Deborah Fortini, Ida Strizzi. A conclusione della seconda giornata del Premio Pieve 2013, infatti, è previsto il debutto in terra toscana di questo spettacolo realizzato in collaborazione con l’Archivio, e che l’Archivio è impaziente di ammirare tra le mura della sua sede storica, che accoglie anche gli spazi del Teatro comunale. «Se non sarò me stesso è uno spettacolo che mette al centro i diari – spiega Paolucci - e riportare quei diari a Pieve rappresenta un momento particolare per la nostra compagnia: si chiude un cerchio, dato che abbiamo trascorso mesi a condurre ricerche in Archivio e abbiamo costruito legami, oltre che con i luoghi, con le persone. Abbiamo avuto l’opportunità di conoscere gli uomini e le donne che hanno fatto giungere in Archivio le storie sulle quali si basa lo spettacolo. Otto diari, anche se ad ogni spettacolo le attrici ne portano in scena sei, che hanno condotto fino a noi le vicende umane di otto donne che, in modo diverso, hanno vissuto sulla loro pelle le traversie della Shoah. «Mi piace raccontare ad esempio che con il figlio di una di queste straordinarie protagoniste della storia del secolo passato – racconta Paolucci – è nato un bellissimo scambio epistolare: parlo di Lucio Zagari, figlio di Bianca Zagari, una giovane fuggita da Napoli negli anni della Seconda Guerra Mondiale per rifugiarsi sui monti dell'Abruzzo, che perderà buona parte della famiglia in una notte di bombardamenti ma che riuscirà a tornare salva a Roma con il marito e i due figli. Uno dei due era proprio il piccolo Lucio il quale lo scorso anno, dopo aver ricevuto il dvd dello spettacolo che gli abbiamo spedito affinché lo vedesse e ci esprimesse la sua opinione, ci ha confessato di aver impiegato un mese per trovare il coraggio di accendere la televisione e spingere il tasto “play”. Quando ci siamo parlati per telefono – ricorda ancora il regista - sia io che l’attrice Micaela Casalboni che interpreta la madre, abbiamo provato un’emozione incredibile: ascoltavamo la voce commossa di un uomo adulto che avevamo conosciuto attraverso le pagine di un diario quando era un bambino, nei racconti di una donna che parlava di suo figlio in un contesto difficile e drammatico. Ecco: in quei momenti ti rendi conto di non misurarti con dei testi di letteratura, bensì con dei documenti che narrano vicende di vita vera, che pensiamo di aver saputo rappresentare al meglio nello spettacolo».

Qual è stato l’approccio delle attrici che si sono ritrovate a entrare nei panni di ragazze, più o meno loro coetanee, che a differenza di loro in vita avevano rischiato di morire, perso dei cari, sofferto in maniera indicibile per le recrudescenze di un conflitto e che avevano deciso di raccontarsi attraverso la scrittura privata?

Torno alle parole chiave che hanno accompagnato questo progetto: pudore e rispetto. Il tema che avevamo scelto di affrontare, la Shoah, è uno di quelli che fanno tremare i polsi a registi e attori che si accingono a trattarlo, anche perché come minimo c’è da confrontarsi con tutto quello che la storia, la sociologia e l’antropologia hanno detto e scritto in proposito. In questo caso, nel caso di Se non sarò me stesso, oltre che con la storia c’era da misurarsi con le storie, quelle che hanno coinvolto delle persone con le quali devi confrontarti, direttamente o indirettamente. Ognuno di noi, e tanto più le attrici, ha sentito il bisogno di mettersi a completa disposizione delle parole scritte su quei diari, con un approccio che nel nostro ambiente non è frequente perché, al di là dei personalismi e delle inclinazioni individuali, è normale andare alla ricerca del “di più” e non del “di meno”.

Come si sviluppa lo spettacolo?

È costituito da atti unici, ognuno dei quali racconta una storia tratta da un diario: in alcuni casi utilizzandone alla lettera le parole così come scritte dalle autrici, mentre altre le storie prendono vita attraverso il racconto del diario, dunque in scena c’è una narratrice. In alcuni interpretazioni l’immedesimazione da parte delle attrici è impressionante e colpisce molto gli spettatori: cito il caso della piccola Ave, adolescente reclusa in un campo di smistamento a Dresda durante il bombardamento della città, che viene portata in scena da Giada Borgatti la quale, pur essendo più grande, richiama molto da vicino fisicamente la giovane protagonista del diario che interpreta. Chi assiste allo spettacolo non fatica a pensare che quel corpicino gracile che osserva in scena possa appartenere alla diarista che si racconta.

Perché la scelta del titolo Se non sarò me stesso?

È una citazione tratta da uno dei testi sacri dell’ebraismo, che nella versione integrale recita “se non sarò me stesso chi lo sarà per me”. Ci sembrava un’assunzione di responsabilità, nei confronti di un’iniziativa che andava intrapresa: nel nostro caso, volendo per l’ennesima volta, ci è sembrato necessario non dimenticare e accendere un riflettore su questo genere di storie che non possono essere disperse. Ci siamo presi la responsabilità di farle rivivere e ne siamo orgogliosi, ci sembra un modo veramente nobile di fare teatro. Anche perché siamo convinti che molte volte portare in giro le storie delle persone comuni, attraverso uno strumento penetrante e capillare come il teatro, rappresenti il modo migliore per far giungere un certo tipo di messaggi a un pubblico più vasto.

                                           

                                                                                                                  (l’intervista è a cura di Nicola Maranesi)

 

 
 
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