Maria Margorzata Straszewska Stampa

Brani scelti

straszewska Negli ultimi due anni, prima della guerra, ci furono degli strani movimenti nella zona dove si trovava la Casa Lontana tra i contadini di origine tedesca, delle riunioni segrete, strane facce in giro. Tutto questo convinse mia madre a vendere il podere e trasferirsi all'est del paese dove “la vita sarebbe stata più sicura”. La casa e i campi furono messi in vendita, e comperati, naturalmente, da un tedesco e cominciarono i nostri viaggi per trovare un'altra casa. Visitammo così parecchie tenute e finalmente ne trovammo una giusta. (…) Anche nel collegio ci furono dei notevoli cambiamenti in quel periodo. Il Ministero dell'educazione impose a tutte le scuole, sia statali che private, l'educazione paramilitare per prepararsi a un'eventuale guerra. Andavamo dunque al campo di tiro per imparare a maneggiare i fucili e a sparare. Avevamo avuto anche delle esercitazioni con le maschere a gas, e con il vero gas: iperite, che dovevamo sopportare con le maschere sul viso per una mezz'ora. Imparavamo anche a leggere le carte topografiche, e siamo state mandate a fare il campeggio per una settimana nelle vere tende militari in un grande bosco. (…) Intanto la situazione politica peggiorava, dopo l'anschluss dell'Austria fu il turno della Cecoslovacchia. Ci chiedevamo tutti quando Hitler si sarebbe deciso ad attaccare anche la Polonia.(…)

Un giorno arrivò un telegramma che richiamava mio fratello a Varsavia per presentarsi al comando del suo reggimento. Partì lasciando noi tre in lacrime. Ripetevamo che era stato un falso allarme. La sera stessa fu annunciata alla radio la mobilitazione generale. Noi tutti credevamo che la visita che fece a Berlino il premier britannico Chamberlain avrebbe evitato la guerra all'ultimo momento. Purtroppo non fu così e un giorno mio cugino mi svegliò dicendo che i tedeschi avevano attaccato la Polonia e che Varsavia era stata bombardata senza preavviso. Pensavo a mio padre e ad Andrea, già sotto le armi. Quel giorno andai in fondo al giardino presa da uno sconforto tremendo e scoppiai a piangere. Sentivo che la vita di tutti noi sarebbe cambiata, e anche la mia spensierata giovinezza era finita. Per la prima volta nella mia vita ebbi una paura viscerale, sentivo che la sicurezza che mi dava la famiglia si sarebbe spezzata. Pensavo anche con tristezza che non sarei più tornata al mio collegio perché la zona era occupata dai tedeschi e che non avrei mai cominciato il liceo con le mie compagne. Mi illudevo però che alla fine avremmo vinto. Intanto ci arrivavano delle notizie delle atrocità che i Tedeschi compivano sul terreno occupato da loro e dei costanti bombardamenti di Varsavia. La nostra unica speranza era riposta nella Francia e nella Gran Bretagna che avevano dichiarato guerra alla Germania poco dopo l'attacco della Polonia da parte di Hitler.


La casa era un vero campo di battaglia. Tutto rovesciato per terra. Per due giorni mia madre subì venti perquisizioni; ogni nuovo gruppo di soldati ci metteva mano. Fu anche una interminabile processione della popolazione locale per scegliere cosa portare a casa loro, dato che i padroni non esistevano più, e tutto era un “bene comune”. Il pianoforte di mia madre fu preso dai contadini che dovettero abbattere un muro della loro casetta per farlo entrare dentro. La nostra ex guardia notturna “salvò” così i quadri; “Ho preso le cornici perché erano belle, ma i santi li bruciai, per non farli cadere nelle mani degli empii”. I santi erano: una testa di Guido Reni, il ritratto di mio nonno e altrettanti preziosi. I mobili caricati sui camion partono per la Russia.
(…) I soldati russi alloggiati nella casa continuavano a farci delle visite e cercavano di convincerci a diventare comunisti. Spiegavano a mia nonna che Dio non esisteva ed era inutile pregarlo; la nonna ripeteva loro che era sempre stata credente e non avrebbe cambiato adesso e che avrebbe pregato per loro lo stesso. Parlavano il russo, mia nonna rispondeva in polacco e si capivano bene.
In quei tempi così difficili ammiravo mia madre che non perdeva il buon umore e la serenità. Spogliata di tutti i suoi averi scherzava dicendo che dopo tutto non si trovava così male: non aveva più alcuna preoccupazione per l'andamento degli affari, ma solo preoccuparsi di cosa mettere in bocca.


Un giorno Sophie mi chiamò nella stanza di mio fratello e con voce segreta mi propose di entrare a far parte anch'io della resistenza senza dirlo a mia madre. Accettai la loro proposta più che altro per un senso del dovere. Tutti e due mi fecero giurare sulla Bibbia di rimanere fedele alla patria, di mantenere la segretezza anche nel caso di arresto da parte del nemico e di impegnarmi a fare tutti i lavori richiesti. Il nostro lavoro consisteva nel trasportare gli esemplari del bollettino clandestino tra la tipografia e vari indirizzi chiamati poi “cassette postali”. Erano questi i primi tempi della stampa clandestina, negli ultimi anni i giornali erano stampati su una specie di carta giapponese, ultraleggera, con dei caratteri piccolissimi che erano più facili da trasportare. Ognuna di noi doveva prendere un pacco che riusciva a maneggiare, dunque almeno cinque chili per pacco, avvolto in una carta marrone e avviarsi verso l'indirizzo datoci. Era un lavoro piuttosto stancante, soprattutto quando si correva per prendere il tram. Per non parlare, naturalmente, del pericolo di un controllo da parte delle SS. Una volta, mi ricordo che due tedeschi, per fortuna della Wehrmacht, mi aiutarono a salire sul tram: questo non mi preoccupò più di tanto, avendo già imparato la differenza tra la polizia tedesca e l'esercito.

Nel giugno 1941 ci fu per noi un raggio di speranza di vedere finire la guerra. Hitler ruppe la sua alleanza attaccando la Russia. Cominciarono allora dei cambiamenti nel comportamento dei tedeschi. Per prima cosa ordinarono l'oscuramento della città. Quelli che non seguivano il loro ordine si videro sparare alle finestre. Le poche macchine che circolavano nella città dovevano avere i fari schermati dall'alto.
La città assunse un aspetto spettrale. Il buio era così completo che si viveva soltanto con i suoni e i rumori. La gente aveva smesso anche di parlare nell'oscurità. La cosa più difficile era di circolare a piedi nelle strade buie e non imbattersi uno nell'altro. Qualcuno inventò dei bottoni fosforescenti che si mettevano all'occhiello per segnalare la presenza del passante.

La notte le incursioni degli aerei si facevano più intense e duravano quanto il buio. Lanciavano i razzi illuminanti a grappoli che la popolazione di Varsavia chiamava “lampadari”. Il chiarore era così intenso che si poteva persino leggere un libro. Varsavia si preparava a prendere parte nella lotta di liberazione prima che arrivassero i sovietici, per impedire loro la formazione di un governo comunista. Le armi mancavano. Provenivano per la maggior parte dalle operazioni dei partigiani che arrivavano ad attaccare i depositi militari tedeschi, alcune venivano vendute dagli stessi militari tedeschi che volevano guadagnarsi così qualche soldo.
Verso la fine di luglio i tedeschi, tramite gli altoparlanti “abbaianti” dalla gente, ordinarono alla popolazione polacca dai 17 ai 65 anni di presentarsi la mattina seguente ai diversi punti della città per i lavori di fortificazione. Contavano così su 100.000 uomini, ma quei pochi che lo fecero erano per la maggioranza vecchi o invalidi. I camion tedeschi partirono dunque senza portare nessuno. Gli ingegneri cominciarono a minare i due ponti principali sulla Vistola per tagliare ogni via di scampo nemico.
Sophie arrivò un giorno dicendo che c'era un ordine di mobilitazione di tutti i residenti per il giorno successivo: ognuno di noi aveva l'indirizzo del punto di incontro delle nostre unità. Due ore dopo ci telefonò dicendo che l'ordine era stato cancellato e riportato ad un tempo indeterminato. La maggioranza dei combattenti si trovava già nei punti di raduno aspettando gli ordini dei superiori. Intanto la polizia tedesca moltiplicava la sua sorveglianza, controllando i passanti nelle strade e nelle case, non ci furono seri incidenti.
Provo ad analizzare i miei sentimenti di quei momenti. Paura? Non ne avevo, ero semplicemente troppo eccitata per avere paura, e avevo la consapevolezza di far parte della storia del mio paese ed ero orgogliosa di farlo.

Il centro di Varsavia mi fece una grande impressione. Essendo quasi tutto nelle nostre mani, sulle case sventolavano le bandiere bianco rosse della Polonia. Nelle strade si vedeva la gente con dei bracciali bianco rossi sulle maniche con stampata su la sigla AK (armata clandestina) e l'aquila polacca. I tram non circolavano più, si vedeva qualche vagone rovesciato che era servito come barricata durante i primi giorni della battaglia per conquistare tutti gli obiettivi principali. C'era molta gente nelle strade e tutti sembravano allegri. Ricevetti anch'io un bracciale e la “carta d'identità” dell'insorto, che bisognava portare sempre con sé, questo era indispensabile per evitare le infiltrazioni delle spie tedesche. Nonostante tutte le precauzioni c'erano nel centro della città dei cecchini, nascosti nelle soffitte e chiamati “colombari” dalla popolazione. Parecchie persone vennero uccise da quei cecchini, nonostante i cartelli che indicavano che quel pezzo di strada era pericoloso per i passanti. Si organizzavano delle spedizioni nelle case per sterminare quei cecchini e dopo due settimane non c'erano quasi più. Nel più grande cinema del centro facevano vedere le sequenze della battaglia dei giorni precedenti, e l'aspetto delle strade della capitale. Una copia di questo film fu mandato per vie segrete anche a Londra.

Verso la metà del mese, i Tedeschi cominciarono a bombardare il centro della città, dove noi eravamo, con l'artiglieria pesante, e una nuova arma che fu subito chiamata “la mucca”. Erano dei nebelwerfer che facevano il rumore del muggito della mucca, o di un oggetto pesante trascinato sul pavimento. Per questo fu anche chiamato “armadio”. Fu un'arma terribile soprattutto quando i proiettili erano incendiari. Le case colpite bruciavano come torce e gli esseri umani ridotti a scheletri carbonizzati. Imparai, quando sentivo quell'orribile suono durante le mie missioni, a cercare rifugio sotto un portone o meglio sulla scala delle case. Per fortuna non ho mai visto la gente colpita dalla sostanza incendiaria. Mi capitava soltanto l'occasione di vedere quelli che cadevano colpiti dai proiettili, ma anche a questo ci si poteva abituare. Il collegamento con il centro storico si faceva a mezzo di fogne. Verso la metà del mese cominciò l'esodo della popolazione civile della vecchia città. Si vedeva quella povera gente uscire dai tombini, coperta dal fango, con gli occhi stralunati, e che doveva essere aiutata a raggiungere la strada. Si presentò allora il problema logistico. Furono occupati tutti gli appartamenti vuoti, ma non per molto tempo, dato il continuo bombardamento del quartiere, la gente preferiva le cantine. Si organizzarono allora i comitati per occuparsi di questa numerosa popolazione civile che si sistemava nei sotterrranei.(…)
Due giorni dopo un prioettile sparato dal pesante cannone montato su un treno , finì sull'edificio dove si trovava Sophie ma per fortuna non esplose. Andai subito da lei per vedere se c'erano dei morti o dei feriti. La trovai in forma e mi lasciò vedere il “mostro”. Era un oggetto alto 1 metro e mezzo conficcato nel pavimento. Ci fornì qualche cosa come 300 chili di tritolo che servì per fabbricare delle bombe a mano.


Nei primi mesi di settembre venne il momento dell'attacco finale sulla città vecchia, con bombe, mortai e attacchi diretti dell'esercito. Il quartiere resistette per un po' ma poi le difese cominciarono a venire meno e fu ordinato l'abbandono delle posizioni. I combattenti cominciarono ad arrivare nel nostro quartiere attraverso le fogne. Arrivarono sfiniti, sporchi, tutti uomini e donne vestiti con le uniformi mimetiche prese dai magazzini tedeschi che diventarono la loro gloriosa divisa fino alla fine dell'insurrezione. Finita l'evacuazione i tedeschi iniziarono a deportare la popolazione civile rimasta e a mandarla nei campi di sterminio e cominciarono la progressiva distruzione delle case.
Finita la distruzione della città vecchia venne il nostro turno. Cominciarono con frequenti bombardamenti di stukas e con il famoso cannone ferroviario posizionato vicino alla stazione ovest.
I bombardamenti si succedevano sempre più spesso; il rifugio tremava ad ogni bomba che esplodeva vicino.

Una sera i miei colleghi mi invitarono a salire con loro sul tetto del cinema dove eravamo stazionati per vedere dall'alto che aspetto aveva la città. Fu per me un'esperienza indimenticabile. Era una cosa terrificante e nello stesso tempo molto bella; davanti a noi si erigeva lo scheletro dell'unico grattacielo di Varsavia completamente bruciato. Ogni tanto il vento ravvivava la fiamma e spargeva delle scintille come le stelle filanti dentro la carcassa del grattacielo. Sul cielo di velluto nero all'est si incrociavano le lunghe striscie di proiettori antiarei intenti ad inquadrare gli aerei nemici, sul cielo passavano collane di proiettili luminescenti colorati. Al sud, il fumo d'incendi si colorava di rosso e di giallo. Tutto questo era accompagnato da vari suoni: il suono secco e scattante delle mitragliatrici o delle bombe a mano. Al di là del fiume, dove era il fronte si sentivano dei tuoni di cannone e di bombe.

Intanto pian piano si preparava la capitolazione della città. L'alto comando delle forze polacche si rendeva conto che era inutile combattere se i russi non avevano nessuna intenzione di venire a portarci un aiuto. Si trattava soltanto di ottenere le condizioni più favorevoli alla resa. Ci chiedevamo tutti che cosa sarebbe avvenuto se le negoziazioni avessero fallito e temevamo le eventuali repressioni dei tedeschi. Ormai non c'era più nessun motivo per noi di combattere dato che i russi erano decisi ad aspettare la nostra totale sconfitta. Venne alla fine l'annuncio della firma della resa: i tedeschi accettarono tutte le nostre richieste assegnandoci lo status di combattente e chiedendo soltanto di deporre le armi. Dovevamo partire per la Germania come prigionieri di guerra sotto scorta delle forze armate e non delle SS. La popolazione civile sarebbe stata semplicemente deportata oltre i confini della città senza ulteriori repressioni. Tutto l'enorme sforzo e le perdite umane non erano servite a niente. Varsavia sarebbe stata occupata eventualmente dalle forze sovietiche e nel paese si sarebbe istallato il regime comunista. Eravamo tutti stanchi per lo sforzo di due mesi e scoraggiati.
Si è detto molto sull'opportunità di far scoppiare l'insurrezione, di far morire tanta gente per niente e chi era responsabile dell'ordine per l'ora “W”. Non si arrivò mai a nessuna conclusione. Io so che tutti eravamo talmente pronti ad insorgere che in ogni caso la rivoluzione sarebbe scoppiata.

Maria Margorzata Straszewska
"Un secolo - un istante"
memoria, autobiografia 1928-1971

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